giovedì 14 marzo 2013

CAPITOLO II: JUST A FEELING


Era una notte strana.
Tornavo da una serata senza arte né parte, convito d’essermi divertito, d’aver sorriso, d’aver sentito quello che solo in serate così perfettamente inutili puoi sentire.
Pioveva a dirotto, ed io stavo lì sotto a bagnarmi di quelle lacrime celesti che cadevano sull’asfalto e sul mio volto quasi a voler riempire i solchi lasciati sopra dalle mie.
Era una dannatissima serata sbagliata.
Non ho mai odiato così tanto passeggiare per la città, come in quella notte. I palazzi infiniti, che durante il giorno danno sempre quel senso di maestosità urbana, sembravano eterne e grigie sbarre che mi chiudevano, che mi imprigionavano dentro una strada che pensavo fosse solo ed esclusivamente mia. Ero stato catturato dalla notte, e di sicuro non ne sarei rimasto illeso.
Le luci all’orizzonte, sembravano deboli e lontane fiammelle che resistevano alle intemperie del momento, resistenti seppur piccole.
Pioveva, pioveva fin troppo per i miei gusti, ed io ero fin troppo bagnato. Quel continuo ticchettio mi dava stranamente fastidio, o semplicemente ero nel posto giusto ma nel momento sbagliato.
Passeggiavo, senza neppure uno straccio di ombrello e senza un cappello che mi riparasse la testa da quell’incessante cascata.
Lei, la città, non dormiva affatto, anche se il frastuono della pioggia riusciva persino a crearsi un’eco. Le automobili ed i taxi notturni viaggiavano costantemente e liberamente come solo delle macchinine su una pista san fare. Non avevano paura del tempo avverso, la loro missione era correre, e non avrebbero fallito, per nessuna ragione al mondo.
Ero stanco e triste, e solo.
Guardavo per terra, convinto che quella pioggia mi potesse accompagnare fino a casa.
Ad un tratto però, notai che la mia testa aveva smesso d’esser picchiata dal quel continuo cadere e ricadere d’aghi trasparenti.
Alzai la testa e notai un grande, immenso ombrello rosso sulla mia testa. Non feci neppure in tempo a metter tutto a fuoco, che sentii al mio fianco una voce che mi diceva «Che tempaccio! Non trovi?». Voltai lo sguardo, e la vidi.
Era avvolta da un grande cappotto chiaro, aveva un cappello sulla testa, di quelli col ponpon rosso che mi riportò al passato con una velocità tale che a momenti rischiavo un infarto.
Di cappelli come quelli, se ne vedono ogni cent’anni, ed io ne avevo già visti due.
«Hai ragione, è davvero una brutta nottata. Grazie del riparo».
«Non potevo mica lasciarti lì sotto! Sembri un pulcino spennacchiato, sai?». Fu il complimento migliore della serata.
Era dolce, o per lo meno dentro quel cappotto e sotto quel berretto, lo era tanto.
«Entriamo qui dai, almeno ti potrai asciugare!», mi disse, «Forse, non hai tutti i torti», risposi io.
Entrammo in un localino dei sobborghi metropolitani che non avevo mai visto prima. Non poso mai l’occhio sul mondo che mi circonda, eppure c’ero passato così tante volte che mi sembrò quasi un peccato non averlo notato prima.
Era un gran bel posticino, di quelli con i divanetti rossi di pelle un po’ consumati dal tempo, di quelli con al centro un tavolino quadrato. Le pareti scure facevano la loro figura ed i quadri post-moderni condivano il tutto con un tocco di classe, come solo un assolo di sax dentro un jam session, sa fare.
 Ci sedemmo, ero tutto zuppo mentre lei era completamente asciutta: quell’ombrello era dannatamente affidabile. Ci sfilammo i soprabiti e lei si tolse il cappello col ponpon del quale m’ero già innamorato.
Appena la vidi nella sua interezza, e senza quell’armatura chiara a momenti non cadevo giù dal divanetto. Lei era la nota che stona dentro il rumore di una metropoli in lacrime. Era il sorriso che il cielo mi aveva negato quella sera. Era il fazzoletto che avrebbe asciugato il mio viso umido e tagliato dalla pioggia. Era l’essenza giusta, dentro una notte sbagliata.
Aveva i capelli rossi, d’un rosso che è difficile trovare. Sembrava quasi si fondessero con i divanetti di quel locale nascosto. Erano belli, erano tanti, erano profumati d’un profumo che non avrei mai pensato di poter annusare in una sera di quelle. Aveva la pelle scura. I suoi occhi erano grandi, e portavano dentro una tale serenità che d’un tratto mi sembrò d’esser tornato a casa e d’essermi addormentato senza neanche essermene accorto. Ero a casa, ero al sicuro, ero con lei.
I contorni del suo viso erano quasi disegnati dal miglior artista di tutti i tempi. Era un quadro di Warhol: troppo moderno per quei tempi, e troppo interessante per i tempi futuri.
Sprigionava quiete e tempesta, era l’inizio e la fine di qualcosa del quale non riuscivo a trovar definizione.
Era la fiamma che m’avrebbe asciugato l’anima quella sera.
«Ah! Piacere! Mi chiamo Anna!», «Piacere mio Anna. Io sono ….».
Dopo quelle presentazioni, seguirono momenti di puro e rumoroso silenzio: entrambi sapevamo d’esser lì per un motivo preciso, ma non sapevamo ancora quale fosse. Ci bastava esser lì, nient’altro. Tutto il resto, sarebbe stato solo un grande dettaglio.
«Allora, che ci facevi tutto solo sotto questa pioggia stressante?», mi chiese, interrompendo quell’attimo di slowmotion dentro al quale eravamo sprofondati.
«Stavo tornando a casa, tutto qui.». Son sempre stato un tipo di poche parole, ed è una cosa che mi rimprovero sempre, da sempre.
«Anch’io! Ho avuto da fare a lavoro, e senza rendermene conto son finita col fare tardissimo. Devo ancora cenare, ti spiace se ordino qualcosa?», «Affatto. Quasi quasi, ti faccio compagnia, ho avuto una serataccia, magiar qualcosa magari mi farà bene.»
Ordinammo entrambi le stesse cose: due coppe di gelato, nocciola.
Eravamo disordinati col mondo esterno, e con tutto il locale. Non si son mai visti due che ordinano una coppa di gelato, mentre fuori sta cadendo il cielo, goccia dopo goccia.
Parlammo tanto, forse anche troppo. Lei faceva il medico, e la sua vita era una continua corsa contro il tempo e contro la morte del paziente di turno. Mi raccontò di quanto fosse stata difficile la sua notte al pronto soccorso, tanti feriti e la maggior parte di essi eran stati gravi.
«Beh, puoi aggiungermi alla tua lista allora, sto messo male pure io, anche se non si nota più di tanto» le dissi.
Stavo dannatamente male quella maledettissima notte.
Lei sorrise, e con un tono così pacato e così sincero mi rispose, «Fossero tutti come te i miei pazienti, potrei dire con certezza d’amare il mio lavoro, credimi.».
Secondo miglior complimento della serata, iniziavo col sentirmi viziato.
Fu una notte diversa dal momento in cui mi ritrovai sotto quell’ombrello rosso e vicino a quel ponpon.
Era fantastica, lo era davvero. Riuscì a farmi tornare il sorriso come niente, come se lo facesse da anni. Regalava sorrisi a chi ne era rimasto a corto.
Finimmo le nostre coppe gelato, ed uscimmo fuori. Aveva smesso di piovere.
«Vedi? Anche il cielo sembra essersi rasserenato, non trovi?».
Mi voltai, e le sorrisi. Fu l’unica cosa che riuscì a fare, non potevo fare altrimenti.
Passeggiare con lei era bello, lo era tanto.
La città prese una piega diversa, ed anche la mia gabbia di cemento e travi d’acciaio sembrava essersi dissolta. Era riuscita a liberarmi, e per quanto ancora adesso mi sforzi di capire il come ed il perché, non riesco ancora a spiegarmi come abbia fatto a compiere quel miracolo.
Ma la notte non perdona, fa passare le ore anche quando tu hai deciso di fermarle. Sei pur sempre un essere umano, e certe magie non ti sono concesse, purtroppo.
«Mi sa che dobbiamo separarci, io devo andare da questa parte», le dissi con uno sguardo triste e che di sicuro voleva dir tutt’altro che «dobbiamo separarci».
«Ti va di venire a casa mia invece?».
Non sono domande che si fanno ad un ragazzo col morale sotto terra, che spera in una stella caduta dal cielo, fra una goccia e l’altra, che spera in un dannatissimo miracolo.
«Ne sei sicura? Non mi conosci affatto.», «Al contrario, sento di conoscerti da troppo tempo, e non voglio aspettare oltre, non posso concedermelo.».
Così, ci ritrovammo in casa sua.
Era splendida almeno quanto lei. Si respirava un’aria vintage che da anni non vedevo più. I suoi mobili antichi sembravano respirare ancora passato, le pareti avevano un colore intenso che ti smuovevano l’anima. Quella casa era la gabbia dentro la quale volevo vivere, senza remore alcuna.
Io dovevo restare lì, qualsiasi cosa accadesse.
Senza rendercene conto, finimmo in camera da letto, e consumammo la nostra prima notte insieme.
C’era intesa, c’era voglia, c’era passione. I nostri corpi sembrano non aver segreti, si mescolavano come niente, s’erano fusi senza chiedere permesso alcuno, avevano fatto tutto da soli.
Dentro quei sospiri, quegli abbracci e quei baci, trovammo tutto ciò che cercavamo dentro una notte sbagliata e bagnata. Fu una notte senza fine, ed anche senza inizio se devo dirla tutta.
Ci addormentammo abbracciati l’uno all’altra, lei aveva la testa sul mio petto, era dolce anche in quel momento. «Posso dormire qui sopra? Non ti darò fastidio, promesso!», mi disse con due occhi così grandi e così luminosi che non riuscì a parlare, e le sorrisi ancora una volta.
«Puoi dormire tranquillamente, ci sono io qui per te stanotte, e qualsiasi cosa accada prometto di proteggere i tuoi sogni, e di farti dormire serenamente, come non hai mai fatto prima d’ora, lo prometto».
Fu splendido aspettare di vedere i suoi occhi chiudersi e sentirla respirare dolcemente. Era una bambina, era la mia bambina. Non dormii per niente quella notte, lei era fin troppo interessante per decidere di buttar via le ultime ore rimaste di quella notte sbagliata, nel sonno.
La guardai, osservavo il suo corpo, i suoi capelli sul mio petto muoversi lentamente quasi come delle onde sulla spiaggia. Davano un senso di freschezza alternato ad un fugace andare e tornare.
Mi aveva rapito dentro la sua corrente: sarei morto in lei, e non avrei potuto chieder morte migliore, quella dannata e maledetta notte.
Arrivò il sole a svegliarla. I raggi le disegnavano i contorni. Era una Venere, ed era stata mia per una notte intera.
«Buongiorno bambina mia.», furono le prime parole che dissi.
«Ciao uomo della pioggia», rispose lei, stropicciandosi gli occhi come un cucciolo di donna appena sveglio.
Ci rivestimmo, facemmo colazione in casa sua e ci preparammo per uscire.
Osservarla mentre sceglieva cosa mettere, che accessori abbinare, era uno spettacolo per il quale avrei pagato fin troppo, pur di rivederlo all’infinito.
Ci avviamo verso la porta d’ingresso, lei mi guardò e disse «Grazie, è stata una notte splendida, ma adesso le nostre strade devono separarsi. Non sono pronta per un rapporto stabile e serio, ma ci tengo a dirti che quello che c’è stato fra me e te, non è stato il risultato di una notte da single affamata, ma di una donna che ha sentito il fremito al cuore che cercava da troppo tempo. Spero solo tu capisca.».
Le presi il volto fra le mani, «Non devi dirmi nulla, il nostro silenzio ha parlato fin troppo, non serve spiegar nulla. Le nostre strade adesso devono separarsi, è giusto così, ma la città non è poi così grande, prima o poi le nostre labbra ed i nostri corpi si ritroveranno ancora. Ricorda, ci siamo stampati addosso l’uno il profumo dell’altra, e certi profumi non si dimenticheranno mai.», la baciai ed andai per la mia strada, senza voltarmi.
Cosa mi resta di questa breve ed intensa storia?
Mi resta il sorriso che mi si stampa in faccia, ogni qual volta cammino per la città, mentre piove.
Amerò per sempre la pioggia, e questo, è solo merito suo.
È solo merito suo, se quando sento picchiare sui vetri e sulla mia testa, sento sempre e solo quel semplice e stupido sentimento.

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