giovedì 14 marzo 2013

CAPITOLO II: JUST A FEELING


Era una notte strana.
Tornavo da una serata senza arte né parte, convito d’essermi divertito, d’aver sorriso, d’aver sentito quello che solo in serate così perfettamente inutili puoi sentire.
Pioveva a dirotto, ed io stavo lì sotto a bagnarmi di quelle lacrime celesti che cadevano sull’asfalto e sul mio volto quasi a voler riempire i solchi lasciati sopra dalle mie.
Era una dannatissima serata sbagliata.
Non ho mai odiato così tanto passeggiare per la città, come in quella notte. I palazzi infiniti, che durante il giorno danno sempre quel senso di maestosità urbana, sembravano eterne e grigie sbarre che mi chiudevano, che mi imprigionavano dentro una strada che pensavo fosse solo ed esclusivamente mia. Ero stato catturato dalla notte, e di sicuro non ne sarei rimasto illeso.
Le luci all’orizzonte, sembravano deboli e lontane fiammelle che resistevano alle intemperie del momento, resistenti seppur piccole.
Pioveva, pioveva fin troppo per i miei gusti, ed io ero fin troppo bagnato. Quel continuo ticchettio mi dava stranamente fastidio, o semplicemente ero nel posto giusto ma nel momento sbagliato.
Passeggiavo, senza neppure uno straccio di ombrello e senza un cappello che mi riparasse la testa da quell’incessante cascata.
Lei, la città, non dormiva affatto, anche se il frastuono della pioggia riusciva persino a crearsi un’eco. Le automobili ed i taxi notturni viaggiavano costantemente e liberamente come solo delle macchinine su una pista san fare. Non avevano paura del tempo avverso, la loro missione era correre, e non avrebbero fallito, per nessuna ragione al mondo.
Ero stanco e triste, e solo.
Guardavo per terra, convinto che quella pioggia mi potesse accompagnare fino a casa.
Ad un tratto però, notai che la mia testa aveva smesso d’esser picchiata dal quel continuo cadere e ricadere d’aghi trasparenti.
Alzai la testa e notai un grande, immenso ombrello rosso sulla mia testa. Non feci neppure in tempo a metter tutto a fuoco, che sentii al mio fianco una voce che mi diceva «Che tempaccio! Non trovi?». Voltai lo sguardo, e la vidi.
Era avvolta da un grande cappotto chiaro, aveva un cappello sulla testa, di quelli col ponpon rosso che mi riportò al passato con una velocità tale che a momenti rischiavo un infarto.
Di cappelli come quelli, se ne vedono ogni cent’anni, ed io ne avevo già visti due.
«Hai ragione, è davvero una brutta nottata. Grazie del riparo».
«Non potevo mica lasciarti lì sotto! Sembri un pulcino spennacchiato, sai?». Fu il complimento migliore della serata.
Era dolce, o per lo meno dentro quel cappotto e sotto quel berretto, lo era tanto.
«Entriamo qui dai, almeno ti potrai asciugare!», mi disse, «Forse, non hai tutti i torti», risposi io.
Entrammo in un localino dei sobborghi metropolitani che non avevo mai visto prima. Non poso mai l’occhio sul mondo che mi circonda, eppure c’ero passato così tante volte che mi sembrò quasi un peccato non averlo notato prima.
Era un gran bel posticino, di quelli con i divanetti rossi di pelle un po’ consumati dal tempo, di quelli con al centro un tavolino quadrato. Le pareti scure facevano la loro figura ed i quadri post-moderni condivano il tutto con un tocco di classe, come solo un assolo di sax dentro un jam session, sa fare.
 Ci sedemmo, ero tutto zuppo mentre lei era completamente asciutta: quell’ombrello era dannatamente affidabile. Ci sfilammo i soprabiti e lei si tolse il cappello col ponpon del quale m’ero già innamorato.
Appena la vidi nella sua interezza, e senza quell’armatura chiara a momenti non cadevo giù dal divanetto. Lei era la nota che stona dentro il rumore di una metropoli in lacrime. Era il sorriso che il cielo mi aveva negato quella sera. Era il fazzoletto che avrebbe asciugato il mio viso umido e tagliato dalla pioggia. Era l’essenza giusta, dentro una notte sbagliata.
Aveva i capelli rossi, d’un rosso che è difficile trovare. Sembrava quasi si fondessero con i divanetti di quel locale nascosto. Erano belli, erano tanti, erano profumati d’un profumo che non avrei mai pensato di poter annusare in una sera di quelle. Aveva la pelle scura. I suoi occhi erano grandi, e portavano dentro una tale serenità che d’un tratto mi sembrò d’esser tornato a casa e d’essermi addormentato senza neanche essermene accorto. Ero a casa, ero al sicuro, ero con lei.
I contorni del suo viso erano quasi disegnati dal miglior artista di tutti i tempi. Era un quadro di Warhol: troppo moderno per quei tempi, e troppo interessante per i tempi futuri.
Sprigionava quiete e tempesta, era l’inizio e la fine di qualcosa del quale non riuscivo a trovar definizione.
Era la fiamma che m’avrebbe asciugato l’anima quella sera.
«Ah! Piacere! Mi chiamo Anna!», «Piacere mio Anna. Io sono ….».
Dopo quelle presentazioni, seguirono momenti di puro e rumoroso silenzio: entrambi sapevamo d’esser lì per un motivo preciso, ma non sapevamo ancora quale fosse. Ci bastava esser lì, nient’altro. Tutto il resto, sarebbe stato solo un grande dettaglio.
«Allora, che ci facevi tutto solo sotto questa pioggia stressante?», mi chiese, interrompendo quell’attimo di slowmotion dentro al quale eravamo sprofondati.
«Stavo tornando a casa, tutto qui.». Son sempre stato un tipo di poche parole, ed è una cosa che mi rimprovero sempre, da sempre.
«Anch’io! Ho avuto da fare a lavoro, e senza rendermene conto son finita col fare tardissimo. Devo ancora cenare, ti spiace se ordino qualcosa?», «Affatto. Quasi quasi, ti faccio compagnia, ho avuto una serataccia, magiar qualcosa magari mi farà bene.»
Ordinammo entrambi le stesse cose: due coppe di gelato, nocciola.
Eravamo disordinati col mondo esterno, e con tutto il locale. Non si son mai visti due che ordinano una coppa di gelato, mentre fuori sta cadendo il cielo, goccia dopo goccia.
Parlammo tanto, forse anche troppo. Lei faceva il medico, e la sua vita era una continua corsa contro il tempo e contro la morte del paziente di turno. Mi raccontò di quanto fosse stata difficile la sua notte al pronto soccorso, tanti feriti e la maggior parte di essi eran stati gravi.
«Beh, puoi aggiungermi alla tua lista allora, sto messo male pure io, anche se non si nota più di tanto» le dissi.
Stavo dannatamente male quella maledettissima notte.
Lei sorrise, e con un tono così pacato e così sincero mi rispose, «Fossero tutti come te i miei pazienti, potrei dire con certezza d’amare il mio lavoro, credimi.».
Secondo miglior complimento della serata, iniziavo col sentirmi viziato.
Fu una notte diversa dal momento in cui mi ritrovai sotto quell’ombrello rosso e vicino a quel ponpon.
Era fantastica, lo era davvero. Riuscì a farmi tornare il sorriso come niente, come se lo facesse da anni. Regalava sorrisi a chi ne era rimasto a corto.
Finimmo le nostre coppe gelato, ed uscimmo fuori. Aveva smesso di piovere.
«Vedi? Anche il cielo sembra essersi rasserenato, non trovi?».
Mi voltai, e le sorrisi. Fu l’unica cosa che riuscì a fare, non potevo fare altrimenti.
Passeggiare con lei era bello, lo era tanto.
La città prese una piega diversa, ed anche la mia gabbia di cemento e travi d’acciaio sembrava essersi dissolta. Era riuscita a liberarmi, e per quanto ancora adesso mi sforzi di capire il come ed il perché, non riesco ancora a spiegarmi come abbia fatto a compiere quel miracolo.
Ma la notte non perdona, fa passare le ore anche quando tu hai deciso di fermarle. Sei pur sempre un essere umano, e certe magie non ti sono concesse, purtroppo.
«Mi sa che dobbiamo separarci, io devo andare da questa parte», le dissi con uno sguardo triste e che di sicuro voleva dir tutt’altro che «dobbiamo separarci».
«Ti va di venire a casa mia invece?».
Non sono domande che si fanno ad un ragazzo col morale sotto terra, che spera in una stella caduta dal cielo, fra una goccia e l’altra, che spera in un dannatissimo miracolo.
«Ne sei sicura? Non mi conosci affatto.», «Al contrario, sento di conoscerti da troppo tempo, e non voglio aspettare oltre, non posso concedermelo.».
Così, ci ritrovammo in casa sua.
Era splendida almeno quanto lei. Si respirava un’aria vintage che da anni non vedevo più. I suoi mobili antichi sembravano respirare ancora passato, le pareti avevano un colore intenso che ti smuovevano l’anima. Quella casa era la gabbia dentro la quale volevo vivere, senza remore alcuna.
Io dovevo restare lì, qualsiasi cosa accadesse.
Senza rendercene conto, finimmo in camera da letto, e consumammo la nostra prima notte insieme.
C’era intesa, c’era voglia, c’era passione. I nostri corpi sembrano non aver segreti, si mescolavano come niente, s’erano fusi senza chiedere permesso alcuno, avevano fatto tutto da soli.
Dentro quei sospiri, quegli abbracci e quei baci, trovammo tutto ciò che cercavamo dentro una notte sbagliata e bagnata. Fu una notte senza fine, ed anche senza inizio se devo dirla tutta.
Ci addormentammo abbracciati l’uno all’altra, lei aveva la testa sul mio petto, era dolce anche in quel momento. «Posso dormire qui sopra? Non ti darò fastidio, promesso!», mi disse con due occhi così grandi e così luminosi che non riuscì a parlare, e le sorrisi ancora una volta.
«Puoi dormire tranquillamente, ci sono io qui per te stanotte, e qualsiasi cosa accada prometto di proteggere i tuoi sogni, e di farti dormire serenamente, come non hai mai fatto prima d’ora, lo prometto».
Fu splendido aspettare di vedere i suoi occhi chiudersi e sentirla respirare dolcemente. Era una bambina, era la mia bambina. Non dormii per niente quella notte, lei era fin troppo interessante per decidere di buttar via le ultime ore rimaste di quella notte sbagliata, nel sonno.
La guardai, osservavo il suo corpo, i suoi capelli sul mio petto muoversi lentamente quasi come delle onde sulla spiaggia. Davano un senso di freschezza alternato ad un fugace andare e tornare.
Mi aveva rapito dentro la sua corrente: sarei morto in lei, e non avrei potuto chieder morte migliore, quella dannata e maledetta notte.
Arrivò il sole a svegliarla. I raggi le disegnavano i contorni. Era una Venere, ed era stata mia per una notte intera.
«Buongiorno bambina mia.», furono le prime parole che dissi.
«Ciao uomo della pioggia», rispose lei, stropicciandosi gli occhi come un cucciolo di donna appena sveglio.
Ci rivestimmo, facemmo colazione in casa sua e ci preparammo per uscire.
Osservarla mentre sceglieva cosa mettere, che accessori abbinare, era uno spettacolo per il quale avrei pagato fin troppo, pur di rivederlo all’infinito.
Ci avviamo verso la porta d’ingresso, lei mi guardò e disse «Grazie, è stata una notte splendida, ma adesso le nostre strade devono separarsi. Non sono pronta per un rapporto stabile e serio, ma ci tengo a dirti che quello che c’è stato fra me e te, non è stato il risultato di una notte da single affamata, ma di una donna che ha sentito il fremito al cuore che cercava da troppo tempo. Spero solo tu capisca.».
Le presi il volto fra le mani, «Non devi dirmi nulla, il nostro silenzio ha parlato fin troppo, non serve spiegar nulla. Le nostre strade adesso devono separarsi, è giusto così, ma la città non è poi così grande, prima o poi le nostre labbra ed i nostri corpi si ritroveranno ancora. Ricorda, ci siamo stampati addosso l’uno il profumo dell’altra, e certi profumi non si dimenticheranno mai.», la baciai ed andai per la mia strada, senza voltarmi.
Cosa mi resta di questa breve ed intensa storia?
Mi resta il sorriso che mi si stampa in faccia, ogni qual volta cammino per la città, mentre piove.
Amerò per sempre la pioggia, e questo, è solo merito suo.
È solo merito suo, se quando sento picchiare sui vetri e sulla mia testa, sento sempre e solo quel semplice e stupido sentimento.

domenica 3 marzo 2013

CAPITOLO I: STRINGIMI MADRE, HO MOLTO PECCATO.


Non capivo nulla di quel mondo lì, certo anch’io da piccolo giocavo al dottore, ma quando mi vidi davanti una simile visione, capii all’instante che non si stava giocando affatto, o per lo meno non al dottore. Lei era lì, così bella nella sua purezza, nella sua cagionevole bellezza quasi come fosse un angelo caduto dal cielo in cerca di un rifugio sicuro, di conforto e di tanto, forse troppo amore.
Lei era giovane, splendida.
La sua pelle era candida tanto quanto la neve che pian piano cade e si posa delicatamente sulle finestre di una baita in montagna nei mesi invernali. Era pura, come nessun’altra prima di lei.
I suoi occhi erano chiari, ma non di un semplice “chiaro”.
Erano azzurri come il cielo che sgorga dall’alto di primo mattino, come il mare d’un isola tropicale, ti ci potevi tuffare dentro quegli occhi, e sicuramente saresti morto annegato lì dentro, puoi scommetterci l’anima.
Aveva i capelli castani, stesso colore del tramonto. Quei capelli (ancora adesso che ci penso, vado in overdose), avevano un profumo che fino ad ora non ho più ritrovato. Profumavano di poesia, di pace, d’abbandono dei sensi, del corpo. Era l’esatta rappresentazione di qualcosa che non esisteva, così effimera e reale al tempo stesso. Erano lo stringente battito d’un cuore stanco, cosciente della sopravvenuta fine.
Ci sarei morto con quel profumo, se solo avessi potuto.
Non era il sesso quello che ci teneva uniti, era qualcosa di più che andava oltre i nostri organi riproduttivi. Era come se fossimo legati da un dannato filo invisibile: l’una non poteva allontanarsi dall’altro. Vivevamo in una sorta di dipendente libertà, che solo una sostanza stupefacente sa regalarti.
Lei, era la mia droga. Ed io, il suo tossico preferito.
La conobbi ad un caffè sul lungomare.
Quel posto faceva maledettamene pena. Era pieno di gente che come me non aveva più niente da perdere e nulla da guadagnare: era il limbo in Terra, pieno di fantocci ostaggi del passato che vagavano senza meta. C’erano dei tavoli di legno, consumati dal tempo e dai vandali innamorati che erano soliti graffiarli per lasciarci sopra il proprio marchio, o la manifestazione d’amore eterno del momento, quasi come fossero convinti che certe cose potessero durare per sempre, a quell’età poi. C’era un televisore in bianco e nero (forse era questo l’unico motivo che mi spingeva a frequentare quel postaccio), che dava un tocco d’epoca a tutto il locale, come se non fosse già vecchio abbastanza. Era un posto scadente, un luogo dove perdersi. Non potevi starci dentro più di dieci minuti: ne saresti uscito più vuoto di prima, anche senza spender il becco d’un quattrino.
Tutti lì dentro, ci stavano semplicemente perché dovevano. Il tipo al bancone, aveva dei precedenti penali, e lavorava lì solo di giorno, la sera tornava in carcere. Era pieno di tatuaggi, alcuni davvero interessanti, di cicatrici dovute al suo passato avverso e poco pulito, ed uno sguardo che non lasciava scampo a tristi ricordi e pentimenti istantanei. Aveva ancora troppo da pagare.
La cassiera, nonché padrona della baracca, era una donna finta, letteralmente finta. Era un misto fra una barbie ed un bulldog. Aveva le unghia d’un colore indescrivibile, un profumo nauseante, e sempre quella dannata sigaretta in bocca, quasi come se il chirurgo estetico gliel’avesse incollata al labbro dopo l’operazione. Aveva lo stesso sguardo che ha il boia quando è pronto ad prendersi la tua vita. Ma lei preferiva prendersi i tuoi soldi, fortunatamente.
Lei era la rappresentazione del caffè che possedeva: sgradevole e volgare.
Io stavo da solo, come sempre del resto, sorseggiando il mio caffè americano che odio, ma del quale non riesco a fare a meno. Mi fa sentire così fuori dal mondo quando lo bevo che ormai faccio quasi fatica a cominciare la mia giornata senza  quella dannata tazza di veleno scuro.
Non la notai subito, ero troppo preso dalle mie seghe mentali per riuscire ad aprire gli occhi. Di prima mattina vivo dentro di me, e per uscirne ci metto spesso più del dovuto.
Una volta ripresomi, merito anche di quel caffè americano del cazzo (quanto mi fa schifo), mi guardai attorno, e la vidi.
La osservai per tutto il tempo necessario, e forse anche di più.
Per quanto odi perder tempo, ci sono momenti in cui trovo sia necessario farlo, pena la perdita di sfumature importanti, quelle che fanno sempre la differenza.
La sua voce, quella mi ferì profondamente. Con quella voce avrebbe potuto benissimo uccidere chiunque dentro quel dannatissimo bar.
Lei alzò la mano e fece cenno al cameriere: era pronta per ordinare.
Se solo foste stati lì anche voi. Aveva una grazia tale mentre sfogliava quel sudicio menù, le sue dita sembravano comporre una danza malinconicamente sublime.
Mi bastò quello, per innamorarmi follemente di lei.
«Un caffè amaro, per favore.»
Quella, fu la frase più bella della mia giornata.
Lei era bella, lo era fin troppo. Il suo ingresso aveva quasi ridato vita a tutto il bar, e per far certi miracoli, specialmente in bar come questi, ce ne vuole. 
Era magica, maledettamente magica.
Ma il mio caffè americano stava finendo, e con esso anche il tempo a mia disposizione. Così finii di berlo e mi avvicinai alla cassa. Pagai il mio conto e feci per andar via, ma in quel preciso istante assistetti ad un finale a sorpresa nel quale speravo con tutto me stesso.
Feci un passo indietro ed urtai qualcuno, facendo cadere qualcosa per terra. Mi voltai con aria di sfida (odio chi sta appiccicato al tipo che ha davanti, mentre si è in fila. Mette fin troppa ansia).
«Ma che cazz..».
Non riuscii a finire la frase che la vidi, chinata per terra mentre raccoglieva tutto ciò che le era caduto dalla borsa, per colpa mia (si, ho cambiato idea ok? Stavolta, la colpa è stata solo mia, lei poteva anche salirmi sulle spalle, non rompete.).
«Scusami davvero, non mi ero accorto che fossi dietro di me, ti do un mano!». Lei alzò la testa, mi fece un sorriso che non dimenticherò mai, perché fu come una ventata d’aria dentro un campo di rose: fresca e profumata.
«No, scusami tu. Al tuo posto mi sarei arrabbiata. Odio chi sta appiccicato al tipo che ha davanti mentre si è in fila, mette fin troppa ansia!».
Non credetti alle mie orecchie, e tutt’ora che lo scrivo mi riesce complicato.
«Ti aiuto comunque, non preoccuparti».
Le diedi una mano a rimetter tutto dentro la borsa, e le offrì anche il caffè per farmi perdonare.
«Sei stato fin troppo gentile con me. Ah, a proposito, mi chiamo Claudia, piacere di conoscerti!»
«Piacere mio Claudia, io sono ….».
Era troppo bello per essere vero. Per quanto mi descriva cinico, bastardo e senza cuore, sentii sicuramente che qualcosa aveva ripreso a scorrere dentro di me, dovevo solo capire cosa.
Dovevo andare al lavoro, ma le proposi comunque di fare una passeggiata, il bar dava sul lungomare e dopotutto c’era anche una bella giornata. Giornate come queste, non possono esser vissute da dietro le vetrate del mio ufficio.
«Chiamerò più tardi, fingendo d’esser malato. », pensai tra me e me.
Fu la passeggiata più bella e confortevole fatta dopo mesi di noncurante autodistruzione. Mi trovavo davvero bene con Claudia, in quelle poche ore passate insieme mi riempii la vita.
Si lo so, sembra un discorso così dannatamente banale che mi viene il voltastomaco solo a parlarne, ma meglio la nausea, che passare per l’ipocrita di turno. Quello si che mi farebbe rimettere davvero.
Il suo profumo copriva addirittura quello del mare. Non più quella del mare, ma era la brezza che mi regalava Claudia, ad inumidirmi il viso.
Lei mi parlò della sua vita. Era un pittrice, ed era solita far mostre in giro per il mondo, l’aveva visto tutto il mondo. Mi spiegò com’è fatto un pennello, come lo si deve poggiare su una tela, con che tratto e con che forza bisogna lavorare, come mischiare i colori per ottenere la tonalità giusta e che più serviva.
Mentre lei era intenta a parlarmi del suo mondo, mi feci trascinare così tanto che tutto intorno a me cambiò. Avevo abbandonato la realtà per entrare al di là di un suo dipinto: ero dall’altra parte della tela, ero una sua opera. Ero suo, in quel preciso istante.
Ero nato dalle sue mani, dalla sua fantasia ed avrei vissuto di quella per tutta la vita, o fin quando la mia tela non avrebbe iniziato a sbiadire ed a logorarsi. Adoravo quel mondo per il semplice fatto che non era il mio, non aveva la mia puzza di vita bruciata sopra, non aveva il mio cielo grigio cinico, e c’era dentro un sole senza paragoni. Ero saltato dentro il paradiso. Sarei morto dentro quella tela, e volevo farlo davvero. Era l’unico modo per essere felice per sempre.
Mi sentii triste, quando smise di spiegarmi come si dipinge finendo col chiudere quella finestra dalla quale mi ero sporto volentieri fino a qualche minuto prima.
«Ti sembrerà strano, ma posso invitarti a cena stasera?».
In altre occasioni, non mi sarebbe mai passato per la testa di proporre una cena ad una ragazza che avevo conosciuto poche ore prima, e per sbaglio anche.
«C’hai messo fin troppo tempo a chiedermelo. Accetto volentieri.».
Lei, aveva già capito tutto. Che affascinante strega che era.
Ci scambiammo i cellulari, e le diedi appuntamento per le otto e mezza, dicendole che sarei passato a prenderla io.
In quelle poche ore passate senza di lei, non facevo altro che annusarmi, sentivo già il bisogno del suo profumo, ne ero fatto. Mi aveva a stento sfiorato, ed io ero già finito ko.
Mi vestii e mi preparai. Ricordo che mi misi anche a svuotare la macchina da tutte quelle cazzate che ci tenevo dentro: vecchie cassette, fazzoletti usati e non, fogli di carta, alberelli profumati che ormai stavano appesi da anni, praticamente s’erano impiccati al mio specchietto retrovisore. Lavai anche i tappetini. Ero teso, fin troppo teso per i miei gusti.
Arrivai sotto casa sua prima del previsto, e lei era già sotto ad aspettarmi. I nostri orologi correvano all’unisono.
Non avevo idea di cosa le piacesse, di cosa mangiasse, se fosse allergica o meno a qualcosa, o a qualcuno. Così decisi di portarla a prendere una pizza in un localino in centro.
Adoro quel locale, è così piccolo ed accogliente che sembra di star in casa, e poi fanno una pizza senza paragoni, almeno per me.
Trovammo un tavolo per due, e ci sedemmo. Non c’era tanta gente, e questo fu sicuramente una cosa positiva, ci sarebbe stato un clima più intimo.
Lei si innamorò a prima vista del locale, sarà per le tovaglie a quadretti bianche e rosse che si vedono nei film, sarà per i quadri appesi al muro, sarà perché era già gasata di suo, insomma fu amore a prima vista.
Parlammo per tutta la sera di tutto e di più. Ognuno raccontò la propria vita, ed il suo racconto fu estremamente romantico ed emozionante.
Mi parlò della sua famiglia, di sua madre che aveva lasciato il padre portandola via con sé in giro per il mondo. Mi raccontò dei tanti padri acquisiti che conobbe, tutti carini e pronti a dar l’anima per lei. Uno dei tanti, abitava nella mia stessa città, e lei avrebbe abitato lì per un po’, giusto il tempo della mostra.
Mi raccontò del suo amore per l’arte nato fin da piccola quando, dopo aver disegnato qualcosa di infinito su un foglio andò dalla madre dicendole «Io da grande, farò tantiiii disegni!».
Era luminescente, mi accecava. Anche una storia banale raccontata da lei, cambiava forma, senso e colore, soprattutto colore.
Parlammo così tanto che la nostra cena finì solo perché il locale doveva chiudere. Così ne approfittammo per fare una passeggiata per le vie del centro.
Adoro camminare per la città vuota, senza smog e frastuoni di automobili e motorini che somigliano tanto ad uno straziante e nauseante casino.
Lei parlò tanto, e la cosa mi stava più che bene considerando che io parlo solo tre volte l’anno.
Ad un certo punto mi disse «Prendiamo per di qua, veloce!». Mi afferrò la mano e mi tirò dentro un vicolo che fino a quelle sera mi era sconosciuto.
Era completamente diverso dal resto della città, era così antico, così ricco di piante poste per i gradini di una scala che portava su, quasi verso il cielo. Non mi ero mai reso conto di quanti meravigliosi segreti custodisse la mia città. Che stupido.
Salimmo le scale, ed arrivammo in un parco giochi completamente deserto e Claudia si fiondò verso l’altalena, un atteggiamento maledettamente prevedibile.
Era quasi rapita da quell’altalena. Quel dondolare su e giù, le faceva bene, riuscivo a leggerglielo negli occhi.
Non avete idea di quanto tempo li fissai, quegli occhi. Son convinto d’aver parlato più con loro che con Claudia.
Presa da un impeto di follia urlò «Guarda! Se mi spingo di più riesco a rubare una stella! Vuoi una stella?». A quel punto mi avvicinai, mi sedetti nell’altalena accanto alla sua e con lo sguardo fisso nel vuoto le dissi «Perché voler una stella, quando stasera ho cenato con una Luna meravigliosa?».
Restai di sasso, e lei con me.
Fermò l’altalena, scese e si mise di fronte a me e mi baciò, senza dire niente, lei mi baciò, senza spiegarmi il perché, in quel preciso istante, Claudia mi baciò.
Quel bacio durò tanto, ma non abbastanza, e questo lo pensavamo tutti e due.
Tornati di corsa alla macchina, ci togliemmo i vestiti ed i nostri corpi si unirono in qualcosa di infinito. Eravamo il dipinto migliore della sua carriera, e maledizione c’ero anche io lì dentro!
Fu una notte magica, non le mancava nulla, ed anche il superfluo faceva la sua sporca figura.
Con lei non potevi farci solo l’amore, dovevi entrare fino in fondo, dovevi cogliere il colore della sua anima, solo così potevi ammettere d’averla posseduta come meritava.
La riportai a casa, era già l’alba ed i colori stavano per svegliarsi nuovamente.
Le diedi la buonanotte ed un altro bacio, e lei scese dalla macchina.
Il viaggio di ritorno verso casa, fu un continuo passa e spassa dei momenti migliori della serata, o per meglio dire, dell’intera serata. Era stata la serata migliore della mia vita, su questo non avevo alcun dubbio.
Tornato a casa mi gettai sul letto, ed iniziai a pensare ad una vita con Claudia, ai nostri figli che sarebbero stati belli come lei, ma col mio carattere. Mi sembrava un connubio perfetto. Ci vidi tutti e sei nella nostra casa al mare, perché avremmo avuto una casa al mare, lei l’adorava ed io adoravo lei, quindi tutto tornava alla perfezione. Pensai ad una vita con lei, ad invecchiare con lei, perennemente mano nella mano. Avremmo vissuto solo del nostro amore e della nostra passione che sarebbe cresciuta giorno dopo giorno.
E così fra un pensiero e l’altro, mi addormentai. Di sicuro l’ho anche sognata, ma non ricordo esattamente in che modo.
Erano le tre del pomeriggio e lo squillo del mio cellulare mi fece quasi cadere dal letto, era lei.
Risposi con una voce da zombie «Ehi, buongiorno.». Ma dall’altra parte, non trovai la stessa calma.
«E’ successo un casino con la mostra, devo partire tra un’ora. Voglio che tu parta con me, ti prego».
Quelle parole furono come la puntina sul disco in vinile, mi fecero tornare a quella realtà di merda dalla quale ero uscito poche ore prima.
Mi sedetti sul letto, ed iniziai a spiegarle che non potevo cambiare radicalmente la mia vita, il mio lavoro, il mio stile di vita così in fretta. Praticamente tutto l’opposto di ciò che avrei dovuto e voluto dirle. Che coglione.
Dall’altro lato del telefono, al suono delle mie parole udì solo silenzio, un silenzio che mi ero cercato da solo, e che mi aveva appena lasciato una pallottola dentro lo stomaco. Sanguinavo senza sporcare neppure le lenzuola.
«Mi spiace davvero.»
Riuscii solo a dirle questo, per un numero infinito di volte.